lunedì 26 novembre 2007

Il difficile cammino dell'internazionalizzazione

Il Corriere della Sera di ieri ha dedicato ben due pagine al mondo universitario italiano ed ai cambiamenti in atto (pag. 23, articolo a firma di Gianna Fregonara e pag. 24, articolo a firma di Gabriella Jacomella). Entrambi i temi trattati avevano già trovato attenzione all’interno del presente blog: l’internazionalizzazione dell’università attraverso la metodologia CLIL (si vedano in particolare: Corsi di Giurisprudenza in lingua inglese e Anche in Italia l'MBA parla inglese) e il fenomeno della crescente mobilità studentesca, specie nell’area post lauream, nel convincimento diffuso nella popolazione studentesca che questo possa contribuire a migliorare le proprie prospettive occupazionali.
Il fenomeno – come registrato dal primo quotidiano italiano – interessa primariamente le facoltà tecnico-scientifiche. Il Rettore del Politecnico di Torino ha pensato ad uno sconto di millecinquecento euro sulle tasse scolastiche quale misura incentivante per coloro i quali intendano iscriversi ai corsi di laurea interamente in lingua inglese. “Rendere internazionale un ateneo non significa subire l’inglese per tutti. L’Università è anche servizio agli studenti oltre che il tempio della nostra cultura” (pag.23), afferma Bruno Mellano, della Rosa nel Pugno, in una dichiarazione riportata dal Corriere. Il Rettore Profumo, sempre nel medesimo articolo, replica “È antistorico sostenere che nelle discipline scientifiche non serve l’inglese”.
Queste due divergenti posizioni sono rivelatrici delle opzioni di valore sottostanti rispetto a scelte così delicate. Una ricerca CRUI effettuata nel 2005-2006 – citata da Gianna Fregonara - intanto rivela che nel periodo di riferimento 7 atenei italiani offrivano lauree triennali in inglese ed 11 erano le lauree specialistiche.
Per quanto concerne più da vicino gli studi giuridici – pur non citati dal Corriere – occorre rammentare come la storica facoltà giuridica fiorentina ha istituito ben tre insegnamenti (occorre sottolineare come si tratti di insegnamenti e non di corsi di laurea) interamente in inglese: International Law; Comparative Labour Law; Introduction to the Italian legal culture. Accanto ad essi la medesima facoltà ha previsto insegnamenti parzialmente impartiti in lingua inglese: Comparative Criminal Law e International Business Law.
Sempre la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Firenze ha istituito – in forza di un accordo del 2000 con l’Université di Paris I Panthéon Sorbonne – un corso di laurea magistrale in Giurisprudenza italo-francese. Si tratta di uno dei non numerosi esempi di double degree nel settore degli studi giuridici.
Applicando riflessioni svolte per ambiti disciplinari distanti si potrebbe dire che sarebbe antistorico pensare di studiare il diritto internazionale con l’ausilio di fonti nella sola lingua italiana: lo studente scrupoloso deve ricorrere alle fonti normative nella versione originale, presto accorgendosi di come la più parte delle convenzioni non contempli la lingua italiana tra le lingue ufficiali. Analoghe riflessioni potrebbero farsi per la comparazione giuridica e numerosi altri ambiti. Sostenere ciò non implica sostegno incondizionato ad iniziative radicali come quella del Politecnico di Torino, impercorribili nel settore degli studi giuridici per ragioni che sono quanto mai evidenti, ma significa soltanto segnalare che occorrono inziative concrete se si desidera che le nostre università attraggano talenti stranieri e che il livello formativo di tutti gli studenti - specie il livello in uscita - venga innalzato.
Tutto ciò genera qualche timore: che tutta questa enfasi sull'inglese finisca col generare dei nuovi analfabeti di ritorno, quegli stessi che usano l'inglese quasi fosse una variante contemporanea del latinorum dell'Azzeccagarbugli manzoniano: uno strumento per "intorbidare il chiaro".
In conclusione: la speranza di chi scrive è che si apra un dibattito serio, che coniughi l'ineliminabile esigenza di rispettare la nostra lingua madre, troppo spesso vittima di aggressioni, con la necessità di attrarre studenti dal resto d'Europa e del mondo, nonchè di garantire anche agli italiani che decidono di studiare in Italia una formazione di respiro internazionale.
Andrea Falcone

3 commenti:

Anonimo ha detto...

In realtà Profumo e il deputato della Rosa del Pugno sono sono in contraddizione. Sapere l'inglese non va contro avere l'università in italiano. Il problema è che Profumo ha attuato un programma di sistematica discriminazione CONTRO l'italiano per inculcare l'inglese. Trovate un'analisi di questa assurda politica sul mio blog:
http://lepolitichelinguistiche.cafebabel.com/

Dott. Andrea Falcone ha detto...

Si tratta di certo di un'opzione radicale, già sperimentata in ambiti più ristretti. Credo che sia necessario discuterne, evitando - come sostenuto da De Mauro - le scelte d'impeto mosse da esigenze grossolanamente pubblicitarie.
Occorre un dibattito approfondito, la consapevole riflessione su costi e benefici.
In un settore come quello della formazione si raccomanda cautela, ma cautela non vuol dire chiusura.

Anonimo ha detto...

Il problema è che questo dibattino non c'è e che apertura significa solo ed esclusivamente imposizione dell'inglese a discapito di tutte le altre lingue.